Non vi è nulla di trionfale nel Risorto dipinto da Marco Basaiti. Benché ci siano gli elementi iconografici caratteristici della risurrezione, il sudario bianco, il vessillo crociato, Gesù, il cui corpo idealizzato, con le piaghe della passione appena percettibili, non guarda lo spettatore ma pare assorto, pensoso, con un volto dolcissimo. Alle sue spalle a sinistra, si vede il sepolcro; alla sua destra in basso, una cavità rappresenta gli inferi svuotati dalla sua vittoria sulla morte.
Seduto sulla roccia, fa della natura il suo trono e proprio su quella pietra sono incise le parole ispirate dal capitolo sesto della Lettera ai Romani: “La morte non ha più potere su di me”. Domina una luce intensa in questo quadro, una luce pasquale che lascio commentare a Romano Guardini, uno dei massimi teologi del 19esimo secolo: “Cristo ha potuto recarci la santa luce perché era colmo dell’amore di Dio.
Egli, che nessuno poteva costringere, s’è inoltrato nell’oscurità; ha sperimentato la sofferenza e l’ignominia, senza eludere alcunché, senza alleviamento, fino alla morte. Perciò ha potuto recare la luce di Dio. Chi volle accendere questa luce dovette prima passare attraverso la vicenda più spaventosa e superarla. Dovette morire e risorgere. Ora egli possiede il potere ed è Signore in un senso ineffabile. Perciò lo vogliamo pregare che faccia risplendere nei nostri cuori quella luce che non viene da alcuna forza umana ma dalla santa profondità di Dio.”